(1) I termini maschili usati in questo testo si riferiscono, al singolare come al plurale, a persone di entrambi i sessi.
Data la lunghezza dei contenuti, si è preferita l’opzione del maschile neutro - inclusivo ad altre possibili come l’uso
dell’asterisco, della schwa, o ancora dello sdoppiamento di genere.

Capito

(2) “La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l'importante è che sia accompagnata dal coraggio.
Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti.”
- Paolo Borsellino

Capito

(3) Come già specificato all’inizio del documento, I termini maschili usati in questo testo si riferiscono, al singolare come
al plurale, a persone di entrambi i sessi. Data la lunghezza dei contenuti, si è preferita l’opzione del maschile neutro -
inclusivo ad altre possibili come l’uso dell’asterisco, della schwa, o ancora dello sdoppiamento di genere.

Capito

Documento identitario

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INDICE

  1. 19 aprile 2020: Il regista1 è solo?
  2. Sopravvivere al teatro di regia: una professione
  3. Anatomopatologia di un mestiere
    pre-produzione : la testa
    ● produzione: i polmoni
    ● allestimento: il cuore
    ● distribuzione: le gambe
  4. Non è un mestiere per donne?
  5. “Mamma, voglio fare regia”: uno sguardo sui registi futuri
  6. Appendice: RAC – un’indagine


    “La paura, di un adulto, è spesso avvolta dalla vergogna. Non solo la propria vergogna,
    ma anche quella degli altri, non vogliamo sapere che un adulto ha paura, che può aver
    paura, perché da qualche parte sappiamo che se un essere umano ha paura siamo tutti
    responsabili. (…) La paura è scomoda, ci chiama a essere vivi di fianco a un altro essere
    vivente, a non essere e parlare altrove, a non distrarci.”
    Chandra Livia Candiani, “Il silenzio è cosa viva”


  1. 19 Aprile 2020: Il regista è solo?
    Solo, solitario, autoritario, al vertice, al comando, privilegiato, indifferente o addirittura
    avverso per natura ad un progetto comunitario. Quanti pregiudizi avvolgono la figura del
    regista nell’inconscio collettivo? Corrispondono ancora ad una qualche realtà? O quelle
    definizioni ci parlano di una regia da manuale, che non esiste più, non nella vera vita della
    stragrande maggioranza degli artisti che hanno scelto questa professione in Italia
    La pandemia ci ha messo di fronte ad una possibilità, forse una responsabilità:
    confrontarci, dialogare sugli aspetti più critici del nostro fare teatro. Sono nati molti spazi
    di dibattito: ad aprire le danze attori e tecnici, uniti in una rinnovata coscienza di categoria
    da una crisi senza precedenti nello spettacolo italiano. Contratti annullati, indennizzi
    negati, diritti ignorati, teatri arroccati in posizioni di autodifesa e serrati di fronte alle
    richieste dei lavoratori: c’è stato, c’è ancora molto di cui parlare, nonostante l’affrettata e
    disomogenea “ripresa” dei lavori che tutto sembra aver smorzato.
    E i registi come sono intervenuti nel dibattito ? Quale visione politica hanno espresso, in
    questo scenario semi-apocalittico?
    Sarà bene partire da un piccolo mea culpa di categoria. Non sembra di aver assistito,
    negli scorsi mesi, a forti prese di posizione da parte dei registi a fianco degli altri comparti
    impegnati in prima linea per ottenere diritti essenziali. Pochi se ne sono visti nelle piazze.
    Intere compagnie si sono messe a rischio con vertenze sindacali, lettere accorate ai teatri,
    dichiarazioni pubbliche dal vivo e su ogni sorta di media: solo ad alcune di queste
    iniziative sembra essere andata la solidarietà dei registi, anche quando fossero coinvolti
    negli spettacoli al centro della bufera.
    Dove sta il problema? Si annida forse un qualche timore nei professionisti della regia?
    Perchè, in un momento di grande rimessa in discussione, la gran parte di loro rimane
    nell’ombra, se davvero hanno la possibilità di prendere grandi decisioni, muovere
    opinione, come da immaginario collettivo ?
    Ci sono alcune frasi che risuonano come litanie ossessive nelle orecchie di chi ha scelto
    di fare il regista : “devi curare i rapporti”, “attento ai rapporti”, “non ti rovinare i rapporti”.
    Non si parla di rapporti sentimentali, ça va sans dire, ma di quelle relazioni verticali,
    piramidali, fortemente sbilanciate verso il paternalismo che sembrano la conditio sine qua
    non dell’esercizio di questa professione del teatro.
    Vengono allora in mente dei nuovi aggettivi per definire il regista italiano contemporaneo:
    fragile; ricattabile; sotto controllo; pieno di paure. Può apparire singolare, specie se si
    confronti la figura registica a quelle tradizionalmente più “sottoposte”: ma sembra proprio
    sia la paura ad accomunarle. Paura di sparire, non esistere più, venire messi da parte :
    sottratti allo sguardo dei “padri” prima, del pubblico dopo.

    Ma la paura deve andare a braccetto col coraggio2. Per questo, anche se, forse, con un
    pò di ritardo, una ventina di registi ha deciso di creare insieme, nel cuore della pandemia
    da Covid19, uno spazio in cui coltivare il coraggio, l’etica, l’integrità professionale. Un
    luogo in cui provare a rintracciare le origini di una fragilità strutturale e provare a
    progettare un rilancio, fare una nuova scommessa che abbia l’etica al suo centro.
    RAC – regist* a confronto è nato così, sotto forma di osservatorio critico, il 19 aprile
    2020: oggi è diventata un’associazione di categoria. Da un primo confronto sulle
    contingenze del momento (spettacoli annullati, contratti sciolti da un giorno all’altro) e
    risalendo a questioni ben più radicate nel tempo, si è cercato di mettersi in gioco e dare

    un nome a paure e fragilità di varie nature, con onestà e capacità di compromissione. Nel
    tempo lo sguardo del gruppo si è proiettato in avanti, verso nuovi obiettivi: provare a
    migliorare lo scenario, le condizioni di lavoro; approfondire il dialogo con i soggetti
    decisori; offrire sostegno e possibilità di confronto ai professionisti della regia teatrale.

  2. Sopravvivere al teatro di regia: una professione
    Fino a circa un decennio fa l’Italia era ancora una delle patrie del cosiddetto “teatro di
    regia”: un teatro in cui tutti i vettori della messa in scena convergevano nella firma del
    regista, in grado di sovvertire significati e significanti della parola scritta, fornire i
    performer di mezzi espressivi sorprendenti, creare con tutte le maestranze macchine
    sceniche inaspettate.
    Era un teatro che poteva disporre di grandi mezzi finanziari e molta libertà d’azione.
    Ma a seguito di un processo di burocratizzazione dei palcoscenici che ha sempre più
    limitato la libertà creativa del regista, è stato probabilmente l’anno 2008, con la crisi
    economica ad esso legata, a porre uno spartiacque definitivo tra il teatro di regia e un
    “nuovo” teatro. È nata così una nuova classe di registi che ha dovuto reinventare –
    spesso cercando a fatica di riadattare modelli esteri impraticabili in Italia – la propria
    professionalità.
    Il modo di fare teatro, e quindi regia, è profondamente cambiato: ma buona parte delle
    imprese e dei decisori politici sembra ancora riferirsi al passato, dimostrandosi lenta e
    impreparata alle necessità di cambiamento.

    Qualche numero

    Per cominciare ad orientarci nel lavoro di mappatura di questo radicale cambiamento del
    sistema produttivo e, quindi, della regia, abbiamo costruito un’indagine anonima, in
    forma di questionario, da sottoporre al maggior numero di registi possibile.
    La formulazione delle domande è stata strutturata per andare a descrivere i vari aspetti
    del lavoro di regia, dal primo contatto con la produzione alla circuitazione dello
    spettacolo: con particolare attenzione alle tipologie di contratto, alla gestione delle varie
    fasi del lavoro e all’inevitabile integrazione del lavoro di regia con altre attività collaterali.
    Il campione a cui abbiamo sottoposto il questionario in una prima fase è composto da 34
    professionisti della regia ed è estremamente eterogeneo, comprendendo registi
    ambosessi di diverse età e operanti sia nel contesto del teatro “istituzionale“ che in
    quello del teatro indipendente.
    Pienamente consapevoli che il campione a nostra disposizione non sia ancora
    statisticamente rilevante e con il chiaro obiettivo di estendere l’indagine al maggior
    numero di professionisti possibile e di mantenerla costantemente aggiornata, scegliamo
    di raccontare comunque, all’interno di questo documento, alcuni risultati del questionario:
    ci sembra descrivano con una certa chiarezza lo stato dell’arte della regia teatrale oggi.

    Il primo dei dati a saltare all’occhio è che il lavoro di regia non è sufficiente alla
    dignitosa sussistenza economica di gran parte di coloro che lo esercitano
    . Da una
    prima indagine condotta su un campione di 34 registi coinvolti nei primi mesi di confronto
    all’interno di RAC emerge infatti che viene affiancato dall’insegnamento nel 72,4% dei
    casi, dalla recitazione per il 58,6% e da lavori al di fuori dell’ambito teatrale per il 31%.
    Nel 55,6% dei casi il reddito da regista non supera il 50% delle entrate annue.



  3. Anatomopatologia di un mestiere
    Questo documento nasce dalla decisione di un gruppo di registi di esporsi su temi che
    per tutti erano stati, fino a quel momento, solo oggetto di conversazioni private. È frutto di
    un grande amore per il mestiere del teatro, e in particolare della regia: un mestiere che va
    guarito da molte storture per anni avallate e integrate in un modus operandi. Sarebbe
    bello che una condivisa consapevolezza di queste, o meglio la possibilità di chiamarle
    liberamente col loro nome, stimolasse i registi ad un cambio di passo; sarebbe bello poter
    immaginare un nuovo scenario in cui i professionisti della regia non cedano più
    volontariamente, quasi in una placida rassegnazione, a un sistema che li mette nove volte
    su dieci di fronte a degli AUT AUT, eliminando la possibilità di un vero dialogo e facendo
    leva sul desiderio di esistere in uno scenario che antepone la competizione alla
    collaborazione. A troppi artisti vengono spacciati per privilegi, fortune da tenersi strette ad
    ogni costo, delle condizioni che a stento conferiscono dignità al lavoro: è forse un’utopia
    darsi la possibilità di dire no a quanto rimpicciolisce, annichilisce, e prendersi come artisti
    una responsabilità verso sé stessi, i propri collaboratori, e , perché no, verso il pubblico?
    Questo documento è anche il tentativo di uscire da un topos, un luogo comune sulla
    impossibilità strutturale di una collaborazione tra registi. Non si immagina in tal senso di
    fare piazza pulita del meccanismo di competizione, in sé produttivo e stimolante, ma di
    costruire un ecosistema sostenibile in cui “i primi posti” non siano necessariamente
    destinati a chi accetta condizioni che vanno a svantaggio di altri.
    Le pagine che seguono vogliono anche problematizzare la questione di genere all’interno
    della regia italiana ed infine gettare un ponte generazionale con i giovani che si stanno
    affacciando o devono ancora affacciarsi al mestiere di registi .
    Con un’attitudine da anatomopatologo si proverà a sezionare il corpo un po’ ammaccato
    del sistema – teatro italiano, con il desiderio di trovare degli strumenti, delle cure, degli
    antidoti per immaginarne una rigenerazione. A partire, è ormai chiaro, dal punto di vista
    della regia.

    PRE-PRODUZIONE : LA TESTA

    Esiste un grande fraintendimento intorno alla professione del regista: si crede che il suo
    lavoro inizi solo in sala prove, esplicandosi nella direzione degli attori, nella scelta di un
    buon piano luci, nella conduzione delle maestranze.
    A partire da questo malinteso si è avviata da molto tempo nel teatro italiano una pratica di
    vera e propria speculazione sul lavoro non retribuito. Se, infatti, è comprensibile che la
    ricerca, lo studio di fonti e modelli, non vengano annoverati nel capitolo di investimento
    che riguarda la regia, non si può dire lo stesso del lavoro di progettazione: quel momento,
    cioè, in cui si verifica la fattibilità del progetto artistico, cercando di ridurre al minimo la
    forbice tra idea in potenza e in atto, desiderabile e sostenibile. Una fase che dura giorni,
    a volte mesi; richiede simulazioni, riconversioni, fasi laboratoriali. Una parte integrante
    della nuova professionalità dei registi, ma che come tale non viene in alcun modo
    riconosciuta, e, dunque contrattualizzata. Così come – per fare un paragone di facile
    comprensione – ad un architetto si richiede, e riconosce economicamente, la
    progettazione di una casa, lo stesso si fa, per uno spettacolo, con un regista; dando
    tuttavia per scontato che quel lavoro venga fatto in gratuità, nel puro e generoso slancio
    della creazione.
    Quali le conseguenze di questa abitudine? E’ una prassi purtroppo non infrequente,
    innanzitutto, quella di un vero e proprio “ghosting” delle imprese a seguito di
    ragionamenti già ampiamente avviati con artisti e compagnie. Si richiede al regista un
    progetto artistico, ai suoi collaboratori bozzetti di scene e altri materiali, e ancora la
    compilazione di un dettagliato budget di produzione, fino al contatto con il cast : quando
    tutto sembra essere pronto, ecco che il referente di produzione o direttore artistico di
    turno interrompe bruscamente – a volte senza alcuna giustificazione – qualsiasi contatto,
    lasciando andare alle ortiche, come nulla fosse, un lavoro che è costato anche mesi.
    Ancora. Considerando per il regista e i suoi collaboratori l’ingresso in sala come primo
    giorno di lavoro, è solo la mattina stessa di quel giorno, nella stragrande maggioranza dei
    casi, che l’impresa sottopone i contratti. Fino a quel momento, tutti i lavoratori coinvolti
    nel progetto in questione sono lasciati in una condizione di totale incertezza e precarietà,
    e in molti casi, quindi, ricattabilità. Nessuna garanzia tutela il lavoro di intere compagnie
    nel caso di annullamento dello spettacolo (è quanto è successo nella stragrande
    maggioranza dei casi con la pandemia da covid 19, ad esempio); ma anche quando non
    si arrivi a questo, frequenti sono le occasioni in cui l’impresa reputi ammissibile cambiare
    le condizioni di lavoro anche a pochi giorni dall’inizio delle prove, imponendo improvvisi
    tagli di budget o altri “aggiustamenti” a scapito del progetto originario di spettacolo.

    Qualche numero

    Entrare nel merito della pre-produzione significa, per chi fa regia, entrare nel campo dell’
    inesplorato contrattuale. Questa prima fase del lavoro di regia ricopre il 58,5% del tempo
    che intercorre dal concepimento dell’opera all’andata in scena. In media un periodo di 55
    giorni.


    A fronte di questo impegno, nel 91,7% dei casi analizzati, la quasi totalità, le giornate di
    lavoro di pre-produzione riconosciute ai registi dalle produzioni sono 0.



    Problematiche, quelle elencate fin qui, che molte registe non giungono neanche ad
    affrontare: schiacciante appare ancora oggi, in termini di percentuali, la preponderanza di
    ingaggi di registi maschi in Italia, a fronte dell’esistenza, nel settore, di sempre più donne
    impegnate nella regia.

    PRODUZIONE : I POLMONI

    Quando, nel percorso verso lo spettacolo , si sia riusciti a gestire adeguatamente la fase
    di pre-produzione, nuove fragilità strutturali non tardano a presentarsi nella fase di
    produzione. Le questioni economiche creano spesso grandi incomprensioni, se non
    addirittura conflitti. Dai primi confronti interni a RAC emergono innanzitutto molti rapporti
    in cui l’impresa censura il budget di produzione al regista, rendendo impossibile la
    conoscenza delle reali possibilità di spesa per la realizzazione dello spettacolo.
    Trasparente o meno, il budget risulta comunque, nella maggior parte dei casi,
    inadeguato a sostenere le esigenze del progetto artistico. A peggiorare il quadro è la
    sproporzione macroscopica esistente, nella maggior parte dei casi, tra produzioni “high”
    e “low” budget, con una tendenza a incastrare per molto tempo nella seconda categoria
    registi in stadi già avanzati della propria carriera.

    Molte le cattive pratiche sulla gestione dei contratti. Prima fra tutte, la frequentissima
    proposta ai registi, da parte delle imprese, di un forfait per le prove, ed altre forme
    “alternative” di accordi (ritenute d’acconto, fatturazioni, utilizzo scorretto dei diritti di
    drammaturgia), a scapito dell’assunzione giornaliera che permetterebbe l’accumulo di
    contributi previdenziali e l’accesso ai redditi di disoccupazione.

    Qualche numero

    Il budget medio (comprensivo del costo azienda di tutte le persone coinvolte e delle
    risorse per scene, costumi e altro) che i registi da noi interrogati hanno a disposizione
    quando lavorano con produzioni terze oscilla tra i 25.500 euro della norma ed i 48.500
    euro
    dei casi più fortunati.



    Il compenso medio per i registi che hanno compilato il nostro questionario anonimo
    oscilla tra i 3.000 euro ed i 5.600 euro nel caso di cachet più alto mai percepito. Per una
    media di 94 giorni di lavoro. Il compenso medio risulta quindi oscillare tra 32 e 60 euro
    al giorno.
    In un contesto di teatro indipendente abbiamo una media tra i 1.700 ed i 3.150 dei cachet
    più alti. il compenso oscilla tra i 18 e i 33,50 euro al giorno. Ancora in tema di cachet,
    “urlano” i dati sulla sproporzione tra registi e registe.





    ALLESTIMENTO: IL CUORE

    L’allestimento è il momento della vita di uno spettacolo in cui non si dovrebbero più
    commettere errori. In modo quasi sistematico soffre invece di problematiche derivanti
    dalle fasi di lavoro precedenti; i registi si ritrovano, a pochi giorni dal primo incontro con il
    pubblico, a vedersi mancare “il palco sotto i piedi”. Ecco perché il loro stato d’animo
    prevalente, non appena entrati in sala al primo giorno di allestimento, è quello di una
    grande ansia.

    L’accesso al palcoscenico è, per i più, limitato a pochi giorni: in una media di 7, almeno 3
    sono dedicati al posizionamento e messa a punto di luce e suono, e nel caso in cui il
    regista disponga di un impianto scenografico , almeno un altro giorno andrà interamente
    impiegato dai macchinisti perché prenda forma su palco. A regista e compagnia
    rimangono dunque 3 / 4 giorni a disposizione per trasferire il lavoro di un mese nel luogo
    deputato all’incontro col pubblico: di questi, ancora, uno sarà dedicato all’ antegenerale
    ed uno alla generale. Si può facilmente immaginare che, in un tempo così risicato, lo
    spazio che il regista potrà dedicare agli attori e all’interpretazione, proprio quando questi
    hanno più bisogno di una guida, sarà ridotto quasi a zero: con il risultato di giungere alla
    generale, quando non al debutto vero e proprio, in un burnout che si ripercuote
    inevitabilmente su tutta la compagnia.

    Fermo restando che l’esiguità del tempo destinato dai teatri all’allestimento è quasi
    sempre legato ad esigenze di programmazione, risulterebbe necessario predisporre,
    prima dell’accesso al palco, delle sale prove adeguate e non distanti dallo spazio
    prettamente teatrale: quelle che in Germania vengono chiamate “Szene Proben”, ovvero
    scenografia di prova.

    DISTRIBUZIONE: LE GAMBE

    Nel sistema produttivo italiano, regolato dal FUS in base al decreto Franceschini del 1
    luglio 2014 , il percorso di vita di uno spettacolo è, nella stragrande maggioranza dei casi,
    affidato alle sue possibilità di circuitazione. Ne deriva fisiologicamente che il desiderio di
    ogni regista è quello di toccare con la propria creazione, costata tempo e risorse, più
    piazze possibili .
    C’è però una forbice troppo ampia tra mole produttiva di tutte le imprese finanziate e
    reale possibilità di collocazione nei cartelloni: il destino della quasi totalità degli spettacoli
    è quindi quello di un ciclo di vita brevissimo, da farfalla, che presto dovrà fare posto ad un
    nuovo prodotto da immettere nel circuito.
    Bisogna tristemente constatare che , anche quando i loro spettacoli abbiano un ottimo
    riscontro di pubblico e critica, i registi vedono raramente questo tradursi nella possibilità
    di raggiungere nuovi spettatori. Ci si prova, a partire da un tentativo di dialogo con i
    distributori, in cui il regista spera di poter programmare insieme al teatro il futuro del
    proprio lavoro; purtroppo, però, questi tentativi sembrano andare a vuoto, con una
    riduzione delle chances che sembra essere direttamente proporzionale alla dimensione
    dell’ente produttivo.

    Quando lo spettacolo ha la fortuna di andare in tournée, la presenza del regista non è in
    linea di massima prevista, a meno che lo stesso non sia coinvolto nello spettacolo anche
    come attore, tecnico, ecc. Molti cercano comunque di seguire i propri lavori nelle fasi più
    delicate (prime repliche, piazze particolarmente importanti), ma quasi sempre in totale
    gratuità.

    A riprova di una diffusa abitudine a liquidare il regista dopo il debutto, emerge poi dalle
    testimonianze raccolte un altro problema: non esiste nel contratto nazionale dei lavoratori
    dello spettacolo alcun cenno ad una tutela contrattuale sulla proprietà intellettuale di uno
    spettacolo, paragonabile ai più noti diritti d’autore sulla drammaturgia (SIAE e altre
    agenzie). Nessuna possibilità quindi, per i registi, di trarre dei benefici economici dal giro
    dei propri spettacoli: a restar loro, e solo in alcuni casi, è la soddisfazione del proprio
    nome in locandina.

  4. Non è un mestiere per donne ?
    La consapevolezza di un problema di genere all’interno della regia (e parimenti in tutto il
    sistema spettacolo italiano) sembra, ancora oggi, molto marginale nella coscienza
    comune.
    Di certo è molto forte nelle donne: come spesso accade, solo le persone più colpite da
    un’ingiustizia riescono a rendersi conto di quanto essa permei tutte le fasi di un sistema.
    Per le registe gli ostacoli alla realizzazione professionale sembrano essere ancora
    numerosi, già a partire dagli ingaggi; in particolare quando siano giovani e madri, una
    combinazione spesso considerata inconciliabile col mestiere della regia.
    Spesso la scelta, da parte delle imprese, di investire sulle registe, va più incontro ad un
    burocratico riempimento delle cosiddette “quote rosa” che ad una reale valorizzazione
    delle loro qualità artistiche. Ancora, dall’indagine interna a RAC risulta frequente, per le
    registe, subire maggiori pressioni e controllo da parte della produzione, nonché l’essere
    prese meno sul serio rispetto ai colleghi maschi.
    Nonostante, all’interno del panorama teatrale italiano, la proporzione tra registi e registe
    divenga sempre più paritaria, solo un numero ridotto di donne ottiene scritture con Tric e
    Teatri Nazionali. La maggior parte si dedica invece a produzioni con compagnie
    indipendenti, di cui spesso sono le fondatrici e all’interno delle quali svolgono molteplici
    mansioni (ideazione, regia, vendita e promozione).
    Infine, come reso evidente dai grafici precedenti, ancora forte è il divario, tra uomini e
    donne impegnati nella regia, in tema di cachet.

  5. Mamma voglio fare regia: uno sguardo sui registi futuri
    E cosa accade a chi si affaccia al mondo del lavoro? Quale panorama si presenta ai
    giovani registi in erba?

    Per comprenderlo, occorre fare un passo indietro, osservando per un attimo il processo
    formativo che li rende professionisti. Il percorso non è uguale per tutti: c’è chi inizia come
    attore e dopo anni passa alla regia, chi affianca altri registi professionisti, chi frequenta
    un’accademia. Esperienze eterogenee ma con un minimo comun denominatore: la
    rincorsa ad un non ben chiaro ideale di “perfetto regista professionista”. Tanti i
    suggerimenti che bersagliano i più giovani in tal senso: dal dover cercare i giusti appoggi
    politici all’adulare chi è già “arrivato”, dall’essere “meno donna” all’essere “più cattivi”.
    Ben prima di giungere alla foce del mondo del lavoro, i nuovi registi sono subissati da
    una narrazione più che smaliziata della professione, indotti, “per il loro bene”, a
    perpetuare cattivi modelli e cattive pratiche.
    L’approdo alle prime esperienze lavorative , con il cuore gonfio e la testa sciabordante di
    idee, viene per molti giovani segnato da un grande scoraggiamento: le aspettative in
    termini di etica del lavoro, gioia e libertà della creazione, opportunità di reale messa alla
    prova, vengono disattese.
    I bandi, per la gran parte dei registi in erba unica possibilità produttiva, si rivelano sì
    un’occasione per mettersi alla prova, ma non innescano in alcun modo un circolo virtuoso
    nella direzione di una continuità della ricerca artistica o di una stabilità professionale.
    Anche al di fuori di essi i registi agli inizi della propria carriera si adattano molto presto a
    sperare in delle briciole, piccole occasioni luminose che raramente si evolvono in
    qualcosa di più.
    Dopo anni di formazione, pochissimi registi riescono a vivere esclusivamente di regia: i
    più devono affiancare ingaggi come attore / attrice, assistente alla regia, oltre che diversi
    lavori extrateatrali.


  6. RAC – UN’INDAGINE


    “La paura, di un adulto, è spesso avvolta dalla vergogna. Non solo la propria vergogna,
    ma anche quella degli altri, non vogliamo sapere che un adulto ha paura, che può aver
    paura, perché da qualche parte sappiamo che se un essere umano ha paura siamo tutti
    responsabili. (…) La paura è scomoda, ci chiama a essere vivi di fianco a un altro essere
    vivente, a non essere e parlare altrove, a non distrarci.”

    Chandra Livia Candiani, “Il silenzio è cosa viva”


    RAC (Regist* a confronto) è uno spazio di dibattito sulla professione del3 regista teatrale
    in Italia, nato in seno all’emergenza COVID 19 come tentativo di rispondere ad una crisi
    di senso in atto da tempo. Vorremmo superare la consuetudine di una certa “solitarietà”
    della figura registica, e promuovere insieme una ridefinizione delle premesse etiche del
    nostro lavoro. Auspichiamo un ecosistema teatrale sano e florido in cui poterci
    immaginare non solo come portatori di diverse e originali visioni artistiche, ma anche
    come connettori tra gli enti / le imprese che investono nel nostro lavoro e le varie
    professionalità coinvolte nella realizzazione dei nostri spettacoli. Crediamo che il primo
    passo verso una reale assunzione di responsabilità che, in una catena virtuosa,
    coinvolga artisti, direttori artistici e figure dirigenziali, fino a giungere ai maggiori decisori
    (ministero in primis), sia quello di dare chiaramente un nome ai dissesti, ai difetti di
    sistema della macchina teatrale italiana. Vogliamo provare a farlo dal punto di vista della
    regia, delle regie, superando la paura di retrocedere rispetto alle posizioni acquisite.

    Quali e quanti sono oggi i professionisti della regia in Italia? In quali condizioni
    economiche e strutturali operano ? Di quali chances dispongono per raccontare al
    pubblico delle storie, dare il proprio apporto alla crescita artistica del teatro italiano?
    Quale margine di libertà esiste nella loro azione? Hanno un reale supporto , da parte del
    ministero e dei decisori politici prima, delle imprese poi, alla creazione di condizioni di
    lavoro sane, che producano benessere nelle compagnie, tra cast e collaboratori? Queste
    condizioni di benessere sono prescindibili dal raggiungimento di un alto livello artistico ?
    Qual è il confine tra “ teatro povero” – grotowskiano – e teatro misero, del ribasso? Anche
    i registi hanno paura? E ancora, come affrontano tutto questo le donne che riescono ad
    affermarsi o anche solo a lavorare nella regia in Italia ? E i registi futuri, quelli che devono
    ancora iniziare?

    Da queste domande abbiamo iniziato, lo scorso aprile , in un gruppo, poi destinato a
    crescere, molto composito: registi dal percorso più istituzionale, altri dal percorso più
    indipendente, professionisti avviati e registi futuri. Era necessario stabilire un minimo
    comun denominatore
    , trovare uno strumento per una “tac” collettiva: abbiamo ideato un
    questionario , ci siamo impegnati a compilarlo con la massima sincerità, ci siamo letti a
    vicenda. Quasi un gioco, ma molto serio: come seri, da prendere sul serio, erano i dati
    che ne emergevano.
    Ecco alcuni dei più significativi, raccolti su un campione di 34 registi professionisti :

    ● il lavoro di regia non è sufficiente alla dignitosa sussistenza economica della
    maggior parte di coloro che lo esercitano. Per un professionista su due il reddito
    da regista non supera il 50% delle entrate annue.

    ● è appurata la totale mancanza, nel vigente CCNL dei lavoratori dello spettacolo, di
    riferimenti ad un salario minimo sindacale per i registi.

    ● tutto il lavoro di progettazione, studio di piani di fattibilità, creazione di bozzetti e
    materiali, lungo a volte anche mesi – quella che chiamiamo pre-produzione – non è
    in alcun modo considerato come parte della professione del regista e dei suoi
    collaboratori, e come tale retribuito.

    ● è purtroppo diffusa , tra le imprese, l’abitudine al ghosting : dopo mesi di scambi,
    trattative, rassicurazioni, il regista si trova nell’impossibilità di comunicare con la
    produzione, che sparisce nel nulla senza spiegazioni.

    ● è abitudine consolidata di diverse imprese proporre il contratto a regista, compagnia
    e collaboratori solo al primo giorno di prova.

    ● è dominante la tendenza, da parte delle imprese, a privilegiare per i registi forme
    contrattuali “alternative” all’assunzione (ritenuta d’acconto, diritti sulla
    drammaturgia, fatturazione con P. IVA), che pesano sull’accumulo di contributi
    previdenziali e sull’accesso ai redditi di disoccupazione.

    ● è evidente una disparità, negli ingaggi dei registi, legata al genere di appartenenza.

    ● molte sono le occasioni in cui l’impresa ingerisce fortemente nelle decisioni dei
    registi, giungendo di frequente a porre la scelta di alcuni nomi come conditio sine
    qua non della realizzazione del progetto.

    ● non esiste, ad oggi, alcuna regolamentazione riguardo ai diritti di regia: la
    proprietà intellettuale dello spettacolo, con la relativa possibilità di trarne un
    beneficio anche economico, si esaurisce alla data del debutto.

    ● lo strumento finanziario più significativo (per non dire unico) è, per la regia
    indipendente, l’accesso ai bandi: questi non solo non garantiscono economie
    sufficienti per mettere in piedi uno spettacolo, ma allo stesso tempo creano forti
    vincoli produttivi e artistici.

    34 registi rappresentano un campione non definitivo ma già significativo: e i dati che
    emergono da questa parziale statistica non sono incoraggianti. Di certo suggeriscono
    delle domande, che vorremmo indirizzare a tutti i componenti della filiera produttiva
    teatrale italiana, dal Ministero fino giù ad arrivare al pubblico, gli spettatori:

    Ministro Franceschini, è consapevole che una larga fetta di professionisti della regia
    operino in una condizione di simile sofferenza strutturale ed economica? La sua visione
    del comparto regia teatrale è comprensiva dell’intero panorama o si restringe a una
    esigua e minoritaria classe di figure “eccellenti” e più note al grande pubblico?

    Direttori artistici, responsabili di produzione, impresari, potete dire in assoluta onestà di
    non aver mai contribuito a creare nessuna delle condizioni di lavoro elencate sopra? Siete
    soddisfatti dell’investimento che fate sui professionisti della regia? Credete di metterli
    nelle condizioni di lavoro ideali ?

    Critici, pensate che un contesto professionale come quello qui presentato possa essere
    scindibile dalla qualità degli spettacoli che recensite ?

    Attrici, attori, performer, danzatori, scenografi, musicisti, light designer, tecnici, avete mai
    pensato che un regista avesse la possibilità di contribuire a migliorare le vostre condizioni
    di lavoro? Se sì, avete dato per scontato che non lo facesse ?

    Spettatori, è questo il regista che immaginate dietro agli spettacoli che vedete?

    Registi italiani, come state? Riconoscete per caso in questi dati qualcosa di familiare?

    Siete pronti a corroborarli o a smentirli del tutto ?
    Questa è una chiamata !

    LINK QUESTIONARIO : https://forms.gle/oGd4G3aBzwvR3nxs9